Ricordatevi tutti di commentare QUI, che se la storia otterrà un buon successo, allora andrà avanti fino alla fine. Se, invece, ne otterrà poco, ci si fermerà subito. Se possibile, fate dei bei commentoni, soprattutto con critiche costruttive e che possano aiutare a migliorarmi, ma anche con pareri sulla trama e sulle ambientazioni da me create.
Enjoy it!!
Il sole e la luna
Il vento soffiava leggero e frizzante quel giorno, sopra la città di Osaka. Il sole splendeva alto e illuminava le case metalliche, simbolo di una civiltà dell’acciaio che tornava in auge dopo cupi anni votati solo alla ricerca scientifica e tecnologica che – però – avevano completamente messo da parte l’individuo ed un fenomeno umano come quello della fabbrica.
Una donna stendeva i panni su un filo attaccato al suo balcone, proprio come ai vecchi tempi, e nel frattempo guardava i bambini giocare tra le strette strade cittadine. Asfalto, cemento, pietra, mattone, acciaio e ferro si fondevano a creare uno spettacolo magnifico, con un grande retrogusto romantico ed operaio. Nell’aria non si respirava più lo smog delle macchine, bensì odore di carbone, di sudore, ma anche di cibo cucinato in casa, come una volta.
In questo clima di assoluta pace apparente, due ragazzi stavano appoggiati beatamente ad una ringhiera in ferro e legno situata subito prima di uno strapiombo che portava ad una vecchia casa quasi abbandonata, con i muri rosa e il tetto spiovente di colore rosso, ma ormai sbiadito ed usurato dal tempo.
La porta in legno era facilmente oltrepassabile anche senza usare delle chiavi, e i vetri delle finestre erano ormai tutti irrimediabilmente rotti. Sullo spiazzo adiacente ad essa – un pezzo di terreno brullo e polveroso, con qualche ciuffo d’erba incolta qua e là – c’era un gruppo di bambini che scherzavano e ridevano rumorosamente, con le loro voci bianche e cristalline.
Appoggiato con la schiena ed i gomiti alla ringhiera c’era un sedicenne piuttosto alto, ma anche molto magro; aveva i capelli di un arancione quasi innaturale, molto corti ma perennemente spettinati; gli occhi piuttosto piccoli e azzurri da far impressione. Aveva lo sguardo puntato verso il cielo, e un sorriso dolce sul visto, spruzzato di lentiggini in prossimità del naso.
Portava una maglietta bianca piuttosto larga ed usurata, ficcata direttamente nei suoi blue jeans vecchio modello e piuttosto antiquati e sciupati; sopra la maglia portava un giubbotto estivo, di colore rosso, a cui aveva strappato le maniche. I pantaloni, larghi verso la fine, gli coprivano quasi del tutto le ormai vecchie scarpe da ginnastica che portava, mentre il giubbotto serviva anche a coprire la pistola che portava sul dietro, infilata in un fodero attaccato alla cintura marrone, con la fibbia dorata.
Il suo nome era Mario.
Accanto ad esso c’era un altro ragazzino, di dodici anni, che era esattamente il suo opposto: piuttosto bassino e tarchiato, abbastanza robusto e con uno sguardo leggermente più cupo. Aveva i capelli abbastanza lunghi, neri corvini, perennemente spettinati; gli occhi erano anch’essi neri come la pece - tanto che non riuscivi a distinguere l’iride dalla pupilla - ed avevano forma leggermente allungata, a mandorla. Infine, sulle guance, aveva due cicatrici da ustione che rassomigliavano molto a delle zanne. Da lì il suo nome: Kiba, Kiba Okami.
Il ragazzotto indossava una maglia a collo alto, piuttosto larga per lui, di colore blu; un paio di pantaloni bianchi che gli arrivavano fino al ginocchio; un polsino bianco con i contorni blu infilato nel braccio destro; e, infine, delle scarpe da ginnastica – anch’esse blu. Egli guardava intensamente verso la casa, ma con lo sguardo irrimediabilmente perso nel vuoto.
I due erano come il sole e la luna: Mario richiamava i colori delle più belle giornate estive, calde ed afose, grazie all’azzurro dei suoi occhi e all’arancione e rosso dei capelli e dei vestiti. Kiba, invece, richiamava piuttosto le notti più cupe e buie, nere e con tonalità blu che tendono ad oscurare e a togliere colore ad ogni cosa.
Ma era caratterialmente che questa opposizione si faceva più marcata: Kiba era un solare, un impulsivo, uno che sapeva sorridere ma anche piangere, o ridere rumorosamente. Spesso si era cacciato nei guai per questo suo carattere anche scorbutico, permaloso e incapace di reggere alle provocazioni. Era un grande combattente a mani nude, piuttosto rozzo e selvaggio, proprio come il suo carattere infantile, ma solare, malgrado la durezza e malinconia di sguardo che lo contraddistingueva.
Mario, invece, era un riflessivo, un pensatore, ma anche una persona serena. Si sapeva arrabbiare, però solitamente preferiva rimanere pacato e scegliere la soluzione migliore senza mai agire d’impulso o trascinato dall’istinto. Era un ottimo tiratore, cosa che richiedeva pazienza e prontezza di riflessi, ma soprattutto era uno stratega con una mente sorprendentemente fine. Il suo sguardo, solitamente allegro e rilassato, sapeva anche raggelarsi e fulminarti fino ad entrarti fin dentro le vene.
Insomma… erano come la luna ed il sole; come il sole e la luna.
“A che pensi?” chiese, ad un certo punto, Mario.
“Nulla di particolare” rispose l’altro.
“Di nuovo a partire, eh?”
Kiba annuì, evitando di incontrare lo sguardo del compagno.
“Perché non vieni anche tu, con me?” fece il moro
“Dopotutto è proprio grazie a te se ho imparato quello che so – come leggere, scrivere e far di conto – e quindi anche tu saresti in grado di cavartela, nel mondo.”
“No, io non posso proprio.”
“I bambini?”
Questa volta fu Mario ad annuire silenziosamente. Era lui ad amministrare la casa rosa su cui dava lo strapiombo vicino a cui erano i due ragazzi: aveva recuperato parecchi ragazzi orfani come lui, e li aveva portati con sé ed allevati come se fossero figli suoi. Tutto, però, era cominciato con la legge 169, atta a chiudere e distruggere tutti gli orfanotrofi.
Mario aveva all’incirca otto anni quando la Yakuza aveva preso il comando e aveva emanato questo decreto assolutamente senza senso, come molti altri in quel periodo – atti solo a consolidare il potere che detenevano sulla città.
Un giorno, come se nulla fosse, sono arrivati degli agenti dell’esercito personale della mafia e avevano dato – senza alcun preavviso – fuoco all’orfanotrofio in cui si trovava Mario assieme ad altri bambini. Purtroppo, lui fu l’unico a salvarsi: perirono anche gli adulti che gestivano il centro. E’ stato così che è iniziata l’avventura e la missione della casa-famiglia messa su dal ragazzo.
Quattro anni dopo, infatti, un altro incendio andò a modificare ulteriormente la vita del giovane: una fabbrica era esplosa e, nei pressi di essa, lui aveva incontrato un bambino più piccolo di quattro anni, prossimo alla morte: quello che gli restava erano qualche vestito bruciacchiato, delle strane cicatrici all’altezza delle guance, e un nome - impresso sulla pelle per colpa del calore e del braccialetto di metallo che indossava poco prima: “Okami”.
In quelle condizioni assolutamente deliranti e precarie, era iniziata l’amicizia tra Mario e Kiba. Poi, pian piano, arrivarono anche altri bambini e ragazzini e la casa-famiglia divenne un centro importante di raccolta dei bambini rimasti orfani, o comunque bisognosi di protezione e un pasto ed un letto caldo.
Ecco perché l’abitazione era diventata uno dei bersagli delle angherie della Yakuza, malgrado i bambini avessero dimostrato sin dal primo momento di sapersi difendere egregiamente.
Ad interrompere improvvisamente la conversazione tra i due ragazzi fu l’urlo di una delle bambine della casa-orfanotrofio: Kokoro. Appena sentito le grida della piccola, i due si precipitarono giù dalla discesa che percorreva in maniera più o meno scoscesa tutto lo strapiombo che portava sul cortile della loro casa.
Non appena arrivarono, videro una scena terribile: due Yakuza tenevano in ostaggio la bambina, e sembravano aspettare proprio i due ragazzi. La bambina guardava i suoi due amici con gli occhi completamente spalancati per lo spavento.
Kokoro aveva una lunga chioma di capelli nerissimi, leggermente mossi, che le arrivavano fino alla schiena; un paio di occhini grigi che facevano quasi impressione; un neo sotto l’occhio destro e un corpo paffutello da bambina di sei anni qual’era.
In quel momento indossava un bellissimo abitino bianco con delle decorazioni in pizzo, un paio di calzette con delle roselline disegnate sopra e delle scarpettine nere, tirate a lucido. Era l’unico ricordo che le rimaneva di sua madre, morta due anni prima nell’ennesimo incidente alle varie fabbriche della città.
I banditi, invece, erano due fratelli gemelli: avevano entrambi i capelli neri, lisci e lucidissimi, raccolti in una coda di cavallo coperti da un cappello col feltro, di colore bianco; gli occhi marroni, invece, sono completamente coperti da un paio di occhiali da sole di marca, piuttosto costosi ed importanti.
Sono due uomini alti e magri, che portano un completo bianco con la cravatta nera e le scarpe di cuoio marrone: tutta roba firmata, sinonimo di ricchezza ma, soprattutto, di appartenenza agli alti gradi della Yakuza.
E’ strano che per una casa-orfanotrofio come la nostra, mandino addirittura una squadra d’élite… constatò Mario.
Inoltre, attorcigliate attorno alle braccia, i due gemelli portavano anche due strane catene di ferro, piuttosto lunghe e pesanti.
“Kiba Ookami, la preghiamo cortesemente di seguirci senza fare storie, se non vuole rischiare che questa piccola creatura indifesa si faccia male” disse, con un ghigno pericoloso in volto, uno dei due Yakuza.
“Bastardo…!!” fece Kiba, di rimando.
Stava per scattare contro il nemico senza fermarsi nemmeno un attimo a pensare, ma Mario gli mise un braccio davanti al petto, per fermarlo.
“M-ma, Mario!!” protestò il giovane.
“Calmati. Con la fretta, non si risolve nulla.”
“E cosa vorresti fare, genio?! Lasciarli andare via con Kokoro?!”
“No. Ma stai tranquillo, non la passeranno liscia.”
In quel momento, Mario fissò gli occhi sui due criminali: erano freddi e spietati.
“Mi hanno fatto veramente incazzare, e ora ne pagheranno le conseguenze.”
A quel punto, tolse il braccio da davanti a Kiba, dandogli così segnale di partire. I due puntarono al gemello che teneva in braccio la bambina, il quale cominciò a scappare.
“Tu continua ad attaccare, che io gli blocco la strada!!” urlò il ragazzo dai capelli arancioni.
Ma, quando stava per deviare la propria traettoria, la catena dell’altro Yakuza lo afferrò e lo gettò contro il muro della casa.
“Tu non vai da nessuna parte, invece!!” fece l’uomo che l’aveva appena bloccato.
Nel frattempo, Kiba e l’altro gemello stavano saltando sopra i tetti della città, con il ragazzo che – grazie alla sua grande velocità ed agilità – aveva quasi raggiunto il suo nemico. Arrivato sul tetto di una palazzina abbandonata, il ragazzo gli fu finalmente addosso.
A quel punto, subito prima di prendersi in pieno l’attacco di Kiba, il signore utilizzò una delle sue due catene per imprigionare Kokoro e poggiarla da una parte. Dopodichè, si girò e tentò di parare l’attacco improvviso del suo avversario.
Però i movimenti del ragazzino furono troppo veloci e, anche se riuscì a bloccare la testata che gli stava per dare nello stomaco, si prese un pugno sul volto che a momenti lo faceva volare fuori dal palazzo su cui erano atterrati. Si era alzato un polverone enorme, ed entrambi i contendenti erano già esausti, ancora prima di cominciare a darsele seriamente.
“A quanto pare…” fece lo Yakuza
“il progetto di portarti direttamente alla nostra base, è fallito. Bene, vorrà dire ti ci dovrò trascinare con la forza.”
Detto questo, cominciò a scrocchiarsi le nocche. A quel punto, l’altra catena si mosse rapidamente contro il ragazzo, senza che l’uomo facesse movimenti particolari.
Ma come fa…?! si chiese il moretto, mentre evitava l’attacco nemico.
Il ragazzo si mise a correre in cerchio, per riuscire a cogliere il più possibile impreparate le catene contro cui doveva confrontarsi, in modo da poter utilizzare il varco creato dal rinculo di esse per poter attaccare direttamente il nemico. Tuttavia, quello schema non sortì l’effetto sperato: le catene avevano un movimento troppo fluido e, anche se arrivavano alla massima espansione, sapevano voltare senza alcun problema e seguire ogni suo movimento.
Tsk… bastardo…
Ma, ad un certo punto, gli venne un’ottima idea e fermò la sua corsa. Concentrò al massimo i suoi riflessi, e si mise esattamente davanti al proprio avversario, pronto a ricevere direttamente l’attacco. Le catene schizzarono verso di lui velocissime, ma il ragazzo fu ancora più rapido e riuscì a cavalcarne una: corse per tutto la lunghezza di essa, fino ad arrivare a contatto con il proprio avversario.
Usando quello stratagemma, aveva colpito nel segno l’unico punto debole – nonché l’unico varco – degli strumenti d’attacco del suo avversario. Arrivato a contatto con esso, gli mollò un calcione laterale all’altezza dell’orecchio, facendolo volare contro una piccola costruzione che si trovava in mezzo al tetto su cui stavano combattendo.
La piccola costruzione venne quasi completamente distrutta, e in parte collassò sullo Yakuza. Proprio nel momento in cui Kiba pensò di aver finalmente vinto, la mano del suo avversario spuntò da sotto le macerie e – pian piano – quello strano uomo ne uscì quasi completamente incolume.
Però ci fu un dettaglio che fecce accapponare la pelle al moretto: il suo nemico non era umano. Difatti, dalla ferita che si era procurato in testa – che era ormai quasi completamente sfondata – spuntavano un ammasso di fili elettrici e di chip.
“M-m-ma che diavolo…?!” fece il ragazzino, sbarrando gli occhi. Un senso di nausea lo prese immediatamente allo stomaco, ma evitò di vomitare per un soffio.
“Che c’è?!” fece l’altro, con uno strano sorriso
“Cosa c’è di strano? Dopotutto… non sono tanto diverso da te.”
Gli occhi di Kiba si sbarrarono sempre di più, sconvolti.
“Ma come? Cosa sarebbe quell’espressione da cane bastonato? Non lo sai, forse? Tu non sei umano!”
Un giramento di testa fece cadere il moretto per terra, seduto e completamente impietrito davanti alle parole di quell’uomo.
“Tu sei un Karakuri, ovvero un cyborg con forma e nucleo umano, proprio come me. Solo che… tu, pur essendo un Karakuri, sei un po’ speciale.”
“Eh?!”
Mario era completamente esausto, dopo dieci minuti passati a non far altro che evitare i colpi dell’avversario. Contro quelle catene i proiettili del ragazzo non servivano a niente, motivo per cui aveva approfittato di una carica esplosiva che aveva in modo da scappare, approfittando della coltre di fumo che si era alzata dopo la detonazione.
Il giovane si trovava all’interno di una casa situata quasi a contatto con l’abitazione rosa dove viveva. Il muro dietro cui si era nascosto era più o meno quanto rimasto di quella casupola, ormai abbandonata e mezza-distrutta da tanto tempo.
Il ragazzo chiuse gli occhi, piegò leggermente in avanti le ginocchia e allungò le mani davanti a sé, verso il suolo, puntandogli contro la pistola. Era una posizione che, nei momenti di difficoltà durante gli scontri, gli permetteva di pensare lucidamente ad una soluzione semplice ed efficace. Nel frattempo, da fuori, si sentivano i passi del suo avversario, che lo stava cercando.
Ad un certo punto, Mario aprì gli occhi in maniera decisa.
“Ah, sei lì! Mi spiace per te, ma ti ho trovato!” disse, proprio in quel momento, il suo avversario.
Ma, prima che l’altro potesse fare nulla, il giovane si proiettò a tutta velocità fuori dalla sua quasi inesistente protezione e si lancia dall’altra parte del piazzale. Una catena lo stava per colpire, ma lui riuscì ad evitare abilmente il colpo, e poi sparò quasi alla cieca verso il suo avversario ma il proiettile mancò completamente l’obiettivo e si conficcò nella parte alta della palazzina mezza-distrutta di prima.
“Beh, direi proprio che hai sbagliato a mirare.”
Ma Mario, sorprendentemente, si mise a sorridere, soddisfatto. Infatti, dopo pochi secondi, alcuni pezzi del tetto che aveva appena colpito si staccarono e – abbastanza velocemente – tutta la palazzina collassò direttamente sopra quello strano uomo, che ne venne completamente travolto, senza via di scampo.
Il giovane, noncurante, si avvicinò alle catene di quell’uomo e – dopo aver rimesso al suo posto la pistola – cominciò ad esaminarle, interessato. Quel tizio bizzarro le muoveva con piccoli movimenti delle dita, quasi impercettibili, come se in realtà usasse il pensiero o – comunque – qualche strano potere.
Però, prima che il ragazzo potesse rendersene conto, la catena in questione gli si attorcigliò attorno al braccio, mentre l’altra gli bloccò i movimenti del corpo. A quel punto, l’uomo uscì fuori dalle macerie quasi completamente sano: aveva più parti del corpo completamente danneggiate, ma anche da lui – come dal fratello – uscirono dei componenti meccanici.
Prima ancora che Mario si potesse sorprendere della scoperta appena fatta – ovvero che il suo avversario era una strana specie di androide -, le catene gli si strinsero attorno così forte che il suo braccio venne completamente spappolato e la cassa toracica dovette sostenere una compressione incredibile.
Le urla disperate del ragazzo si sparsero nel cielo azzurro di Osaka.
Kiba era completamente sconvolto: giaceva inginocchiato, con le gambe molli e le braccia abbandonate lungo il corpo e con un’espressione di terrore e di disgusto in faccia, di chi non voleva credere a quello che aveva appena sentito.
Approfittando di questo stato quasi catatonico del suo avversario, lo Yakuza lo circondò completamente con le sue catene, in modo da bloccarlo. Ma quella protezione durò ben poco: una quantità impressionante di energia uscì dal corpo del dodicenne e spezzò le catene in mille pezzi.
Il potere fuoriuscito da Kiba in quell’occasione era di strana matrice: penetrava direttamente nella pelle di tutti coloro che gli erano accanto e gli trasmetteva paura, ma anche una grande eccitazione. Intanto, gli occhi del ragazzo erano diventati bianchi e i capelli erano completamente spettinati e sparpagliati verso l’alto da quella incredibile ventata di energia.
“Uff… che sensazioni! Si vede che questo è il potere… di un mostro!”
Alla parola “mostro”, qualcosa cambiò nel giovanotto. L’iride tornò al suo posto, ma era di un blu intenso, e la pupilla gli era diventata stretta e verticale, tanto da far impressione. Inoltre le cicatrici avevano cominciato a bruciargli e a diventare di colore rossiccio. I canini e le unghie, poi, gli si erano allungati, e sembrava che il giovane non riuscisse più a stare in piedi ma potesse muoversi solo a quattro zampe, come un animale. Come un lupo.
Il potere di cui era custode continuava a fuoriuscire da lui e sparpagliarsi nell’atmosfera, ormai fuori controllo.
Non appena il giovane si mosse, il suo avversario si accorse che i suoi movimenti erano troppo veloci per essere percepiti da occhio umano – o, nel suo caso, bionico – e si accorse dell’errore che aveva fatto, nel provocarlo.
Il ragazzino lo colpì più volte senza alcun controllo: testate, zampate, dentate era tutto ciò che riusciva a dare, muovendosi alla velocità della luce unicamente grazie a balzi e a cambi di direzione improvvisi. Dopo qualche minuto, ormai completamente ferito ed aperto in più punti, lo Yakuza si inginocchiò a terra, completamente atterrito da quella potenza e da quella ferocia.
In quel momento, allora, Kiba si alzò in piedi – pur rimanendo tutto storto – e puntò l’uomo con uno sguardo completamente privo di ogni umanità e compassione: era puro male, pura cattiveria. A quel punto, preparò la mano destra – facendo uscire ancora di più i suoi artigli – e poi scomparve nuovamente nel nulla.
Persino il suo avversario non si rese conto di nulla: nel giro di una frazione di secondo, il moretto si ritrovò dall’altra parte rispetto al suo nemico, con il suo cuore ancora pulsante in mano. L’uomo, in compenso, guardò qualche minuto in modo assente davanti a sé, prima di collassare definitivamente in una pozza di sangue.
A quel punto, Kiba ebbe un giramento, si riappropriò della sua forma umana, e svenne all’istante. A fermare la sua caduta all’indietro, furono le gambe di uno strano ragazzo vestito con una altrettanto bizzarra tuta nera, piuttosto attillata e con mille tasche e protuberanze, quasi fosse una divisa di una qualche task force.
Nello stesso momento, un giovane vestito esattamente come quello apparso dal moretto, si contrapposero tra Mario e il suo nemico. Vedendo che il nuovo arrivato sembrava stare dalla sua parte, il ragazzo dai capelli arancioni si lasciò vincere dal dolore e cadde a terra, privo di sensi.