Karakuri - Storia originale by Yamato

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Yamato

Dal momento che il topic è scomparso, ecco di nuovo il primo capitolo della nuova versione di Karakuri. Basato su un'idea (ma solo nel nome e in qualche dettaglio) di Masashi Kishimoto, questa storia vi porterà in un mondo alternativo, ma geograficamente simile al nostro, per vederne veramente delle belle!!
Ricordatevi tutti di commentare QUI, che se la storia otterrà un buon successo, allora andrà avanti fino alla fine. Se, invece, ne otterrà poco, ci si fermerà subito. Se possibile, fate dei bei commentoni, soprattutto con critiche costruttive e che possano aiutare a migliorarmi, ma anche con pareri sulla trama e sulle ambientazioni da me create.
Enjoy it!!


KARAKURI


Capitolo 001
Il sole e la luna



Il vento soffiava leggero e frizzante quel giorno, sopra la città di Osaka. Il sole splendeva alto e illuminava le case metalliche, simbolo di una civiltà dell’acciaio che tornava in auge dopo cupi anni votati solo alla ricerca scientifica e tecnologica che – però – avevano completamente messo da parte l’individuo ed un fenomeno umano come quello della fabbrica.
Una donna stendeva i panni su un filo attaccato al suo balcone, proprio come ai vecchi tempi, e nel frattempo guardava i bambini giocare tra le strette strade cittadine. Asfalto, cemento, pietra, mattone, acciaio e ferro si fondevano a creare uno spettacolo magnifico, con un grande retrogusto romantico ed operaio. Nell’aria non si respirava più lo smog delle macchine, bensì odore di carbone, di sudore, ma anche di cibo cucinato in casa, come una volta.
In questo clima di assoluta pace apparente, due ragazzi stavano appoggiati beatamente ad una ringhiera in ferro e legno situata subito prima di uno strapiombo che portava ad una vecchia casa quasi abbandonata, con i muri rosa e il tetto spiovente di colore rosso, ma ormai sbiadito ed usurato dal tempo.
La porta in legno era facilmente oltrepassabile anche senza usare delle chiavi, e i vetri delle finestre erano ormai tutti irrimediabilmente rotti. Sullo spiazzo adiacente ad essa – un pezzo di terreno brullo e polveroso, con qualche ciuffo d’erba incolta qua e là – c’era un gruppo di bambini che scherzavano e ridevano rumorosamente, con le loro voci bianche e cristalline.
Appoggiato con la schiena ed i gomiti alla ringhiera c’era un sedicenne piuttosto alto, ma anche molto magro; aveva i capelli di un arancione quasi innaturale, molto corti ma perennemente spettinati; gli occhi piuttosto piccoli e azzurri da far impressione. Aveva lo sguardo puntato verso il cielo, e un sorriso dolce sul visto, spruzzato di lentiggini in prossimità del naso.
Portava una maglietta bianca piuttosto larga ed usurata, ficcata direttamente nei suoi blue jeans vecchio modello e piuttosto antiquati e sciupati; sopra la maglia portava un giubbotto estivo, di colore rosso, a cui aveva strappato le maniche. I pantaloni, larghi verso la fine, gli coprivano quasi del tutto le ormai vecchie scarpe da ginnastica che portava, mentre il giubbotto serviva anche a coprire la pistola che portava sul dietro, infilata in un fodero attaccato alla cintura marrone, con la fibbia dorata.
Il suo nome era Mario.
Accanto ad esso c’era un altro ragazzino, di dodici anni, che era esattamente il suo opposto: piuttosto bassino e tarchiato, abbastanza robusto e con uno sguardo leggermente più cupo. Aveva i capelli abbastanza lunghi, neri corvini, perennemente spettinati; gli occhi erano anch’essi neri come la pece - tanto che non riuscivi a distinguere l’iride dalla pupilla - ed avevano forma leggermente allungata, a mandorla. Infine, sulle guance, aveva due cicatrici da ustione che rassomigliavano molto a delle zanne. Da lì il suo nome: Kiba, Kiba Okami.
Il ragazzotto indossava una maglia a collo alto, piuttosto larga per lui, di colore blu; un paio di pantaloni bianchi che gli arrivavano fino al ginocchio; un polsino bianco con i contorni blu infilato nel braccio destro; e, infine, delle scarpe da ginnastica – anch’esse blu. Egli guardava intensamente verso la casa, ma con lo sguardo irrimediabilmente perso nel vuoto.
I due erano come il sole e la luna: Mario richiamava i colori delle più belle giornate estive, calde ed afose, grazie all’azzurro dei suoi occhi e all’arancione e rosso dei capelli e dei vestiti. Kiba, invece, richiamava piuttosto le notti più cupe e buie, nere e con tonalità blu che tendono ad oscurare e a togliere colore ad ogni cosa.
Ma era caratterialmente che questa opposizione si faceva più marcata: Kiba era un solare, un impulsivo, uno che sapeva sorridere ma anche piangere, o ridere rumorosamente. Spesso si era cacciato nei guai per questo suo carattere anche scorbutico, permaloso e incapace di reggere alle provocazioni. Era un grande combattente a mani nude, piuttosto rozzo e selvaggio, proprio come il suo carattere infantile, ma solare, malgrado la durezza e malinconia di sguardo che lo contraddistingueva.
Mario, invece, era un riflessivo, un pensatore, ma anche una persona serena. Si sapeva arrabbiare, però solitamente preferiva rimanere pacato e scegliere la soluzione migliore senza mai agire d’impulso o trascinato dall’istinto. Era un ottimo tiratore, cosa che richiedeva pazienza e prontezza di riflessi, ma soprattutto era uno stratega con una mente sorprendentemente fine. Il suo sguardo, solitamente allegro e rilassato, sapeva anche raggelarsi e fulminarti fino ad entrarti fin dentro le vene.
Insomma… erano come la luna ed il sole; come il sole e la luna.
“A che pensi?” chiese, ad un certo punto, Mario.
“Nulla di particolare” rispose l’altro.
“Di nuovo a partire, eh?”
Kiba annuì, evitando di incontrare lo sguardo del compagno.
“Perché non vieni anche tu, con me?” fece il moro
“Dopotutto è proprio grazie a te se ho imparato quello che so – come leggere, scrivere e far di conto – e quindi anche tu saresti in grado di cavartela, nel mondo.”
“No, io non posso proprio.”
“I bambini?”
Questa volta fu Mario ad annuire silenziosamente. Era lui ad amministrare la casa rosa su cui dava lo strapiombo vicino a cui erano i due ragazzi: aveva recuperato parecchi ragazzi orfani come lui, e li aveva portati con sé ed allevati come se fossero figli suoi. Tutto, però, era cominciato con la legge 169, atta a chiudere e distruggere tutti gli orfanotrofi.
Mario aveva all’incirca otto anni quando la Yakuza aveva preso il comando e aveva emanato questo decreto assolutamente senza senso, come molti altri in quel periodo – atti solo a consolidare il potere che detenevano sulla città.
Un giorno, come se nulla fosse, sono arrivati degli agenti dell’esercito personale della mafia e avevano dato – senza alcun preavviso – fuoco all’orfanotrofio in cui si trovava Mario assieme ad altri bambini. Purtroppo, lui fu l’unico a salvarsi: perirono anche gli adulti che gestivano il centro. E’ stato così che è iniziata l’avventura e la missione della casa-famiglia messa su dal ragazzo.
Quattro anni dopo, infatti, un altro incendio andò a modificare ulteriormente la vita del giovane: una fabbrica era esplosa e, nei pressi di essa, lui aveva incontrato un bambino più piccolo di quattro anni, prossimo alla morte: quello che gli restava erano qualche vestito bruciacchiato, delle strane cicatrici all’altezza delle guance, e un nome - impresso sulla pelle per colpa del calore e del braccialetto di metallo che indossava poco prima: “Okami”.
In quelle condizioni assolutamente deliranti e precarie, era iniziata l’amicizia tra Mario e Kiba. Poi, pian piano, arrivarono anche altri bambini e ragazzini e la casa-famiglia divenne un centro importante di raccolta dei bambini rimasti orfani, o comunque bisognosi di protezione e un pasto ed un letto caldo.
Ecco perché l’abitazione era diventata uno dei bersagli delle angherie della Yakuza, malgrado i bambini avessero dimostrato sin dal primo momento di sapersi difendere egregiamente.
Ad interrompere improvvisamente la conversazione tra i due ragazzi fu l’urlo di una delle bambine della casa-orfanotrofio: Kokoro. Appena sentito le grida della piccola, i due si precipitarono giù dalla discesa che percorreva in maniera più o meno scoscesa tutto lo strapiombo che portava sul cortile della loro casa.
Non appena arrivarono, videro una scena terribile: due Yakuza tenevano in ostaggio la bambina, e sembravano aspettare proprio i due ragazzi. La bambina guardava i suoi due amici con gli occhi completamente spalancati per lo spavento.
Kokoro aveva una lunga chioma di capelli nerissimi, leggermente mossi, che le arrivavano fino alla schiena; un paio di occhini grigi che facevano quasi impressione; un neo sotto l’occhio destro e un corpo paffutello da bambina di sei anni qual’era.
In quel momento indossava un bellissimo abitino bianco con delle decorazioni in pizzo, un paio di calzette con delle roselline disegnate sopra e delle scarpettine nere, tirate a lucido. Era l’unico ricordo che le rimaneva di sua madre, morta due anni prima nell’ennesimo incidente alle varie fabbriche della città.
I banditi, invece, erano due fratelli gemelli: avevano entrambi i capelli neri, lisci e lucidissimi, raccolti in una coda di cavallo coperti da un cappello col feltro, di colore bianco; gli occhi marroni, invece, sono completamente coperti da un paio di occhiali da sole di marca, piuttosto costosi ed importanti.
Sono due uomini alti e magri, che portano un completo bianco con la cravatta nera e le scarpe di cuoio marrone: tutta roba firmata, sinonimo di ricchezza ma, soprattutto, di appartenenza agli alti gradi della Yakuza.
E’ strano che per una casa-orfanotrofio come la nostra, mandino addirittura una squadra d’élite… constatò Mario.
Inoltre, attorcigliate attorno alle braccia, i due gemelli portavano anche due strane catene di ferro, piuttosto lunghe e pesanti.
“Kiba Ookami, la preghiamo cortesemente di seguirci senza fare storie, se non vuole rischiare che questa piccola creatura indifesa si faccia male” disse, con un ghigno pericoloso in volto, uno dei due Yakuza.
“Bastardo…!!” fece Kiba, di rimando.
Stava per scattare contro il nemico senza fermarsi nemmeno un attimo a pensare, ma Mario gli mise un braccio davanti al petto, per fermarlo.
“M-ma, Mario!!” protestò il giovane.
“Calmati. Con la fretta, non si risolve nulla.”
“E cosa vorresti fare, genio?! Lasciarli andare via con Kokoro?!”
“No. Ma stai tranquillo, non la passeranno liscia.”
In quel momento, Mario fissò gli occhi sui due criminali: erano freddi e spietati.
“Mi hanno fatto veramente incazzare, e ora ne pagheranno le conseguenze.”
A quel punto, tolse il braccio da davanti a Kiba, dandogli così segnale di partire. I due puntarono al gemello che teneva in braccio la bambina, il quale cominciò a scappare.
“Tu continua ad attaccare, che io gli blocco la strada!!” urlò il ragazzo dai capelli arancioni.
Ma, quando stava per deviare la propria traettoria, la catena dell’altro Yakuza lo afferrò e lo gettò contro il muro della casa.
“Tu non vai da nessuna parte, invece!!” fece l’uomo che l’aveva appena bloccato.
Nel frattempo, Kiba e l’altro gemello stavano saltando sopra i tetti della città, con il ragazzo che – grazie alla sua grande velocità ed agilità – aveva quasi raggiunto il suo nemico. Arrivato sul tetto di una palazzina abbandonata, il ragazzo gli fu finalmente addosso.
A quel punto, subito prima di prendersi in pieno l’attacco di Kiba, il signore utilizzò una delle sue due catene per imprigionare Kokoro e poggiarla da una parte. Dopodichè, si girò e tentò di parare l’attacco improvviso del suo avversario.
Però i movimenti del ragazzino furono troppo veloci e, anche se riuscì a bloccare la testata che gli stava per dare nello stomaco, si prese un pugno sul volto che a momenti lo faceva volare fuori dal palazzo su cui erano atterrati. Si era alzato un polverone enorme, ed entrambi i contendenti erano già esausti, ancora prima di cominciare a darsele seriamente.
“A quanto pare…” fece lo Yakuza
“il progetto di portarti direttamente alla nostra base, è fallito. Bene, vorrà dire ti ci dovrò trascinare con la forza.”
Detto questo, cominciò a scrocchiarsi le nocche. A quel punto, l’altra catena si mosse rapidamente contro il ragazzo, senza che l’uomo facesse movimenti particolari.
Ma come fa…?! si chiese il moretto, mentre evitava l’attacco nemico.
Il ragazzo si mise a correre in cerchio, per riuscire a cogliere il più possibile impreparate le catene contro cui doveva confrontarsi, in modo da poter utilizzare il varco creato dal rinculo di esse per poter attaccare direttamente il nemico. Tuttavia, quello schema non sortì l’effetto sperato: le catene avevano un movimento troppo fluido e, anche se arrivavano alla massima espansione, sapevano voltare senza alcun problema e seguire ogni suo movimento.
Tsk… bastardo…
Ma, ad un certo punto, gli venne un’ottima idea e fermò la sua corsa. Concentrò al massimo i suoi riflessi, e si mise esattamente davanti al proprio avversario, pronto a ricevere direttamente l’attacco. Le catene schizzarono verso di lui velocissime, ma il ragazzo fu ancora più rapido e riuscì a cavalcarne una: corse per tutto la lunghezza di essa, fino ad arrivare a contatto con il proprio avversario.
Usando quello stratagemma, aveva colpito nel segno l’unico punto debole – nonché l’unico varco – degli strumenti d’attacco del suo avversario. Arrivato a contatto con esso, gli mollò un calcione laterale all’altezza dell’orecchio, facendolo volare contro una piccola costruzione che si trovava in mezzo al tetto su cui stavano combattendo.
La piccola costruzione venne quasi completamente distrutta, e in parte collassò sullo Yakuza. Proprio nel momento in cui Kiba pensò di aver finalmente vinto, la mano del suo avversario spuntò da sotto le macerie e – pian piano – quello strano uomo ne uscì quasi completamente incolume.
Però ci fu un dettaglio che fecce accapponare la pelle al moretto: il suo nemico non era umano. Difatti, dalla ferita che si era procurato in testa – che era ormai quasi completamente sfondata – spuntavano un ammasso di fili elettrici e di chip.
“M-m-ma che diavolo…?!” fece il ragazzino, sbarrando gli occhi. Un senso di nausea lo prese immediatamente allo stomaco, ma evitò di vomitare per un soffio.
“Che c’è?!” fece l’altro, con uno strano sorriso
“Cosa c’è di strano? Dopotutto… non sono tanto diverso da te.”
Gli occhi di Kiba si sbarrarono sempre di più, sconvolti.
“Ma come? Cosa sarebbe quell’espressione da cane bastonato? Non lo sai, forse? Tu non sei umano!”
Un giramento di testa fece cadere il moretto per terra, seduto e completamente impietrito davanti alle parole di quell’uomo.
“Tu sei un Karakuri, ovvero un cyborg con forma e nucleo umano, proprio come me. Solo che… tu, pur essendo un Karakuri, sei un po’ speciale.”
“Eh?!”

Mario era completamente esausto, dopo dieci minuti passati a non far altro che evitare i colpi dell’avversario. Contro quelle catene i proiettili del ragazzo non servivano a niente, motivo per cui aveva approfittato di una carica esplosiva che aveva in modo da scappare, approfittando della coltre di fumo che si era alzata dopo la detonazione.
Il giovane si trovava all’interno di una casa situata quasi a contatto con l’abitazione rosa dove viveva. Il muro dietro cui si era nascosto era più o meno quanto rimasto di quella casupola, ormai abbandonata e mezza-distrutta da tanto tempo.
Il ragazzo chiuse gli occhi, piegò leggermente in avanti le ginocchia e allungò le mani davanti a sé, verso il suolo, puntandogli contro la pistola. Era una posizione che, nei momenti di difficoltà durante gli scontri, gli permetteva di pensare lucidamente ad una soluzione semplice ed efficace. Nel frattempo, da fuori, si sentivano i passi del suo avversario, che lo stava cercando.
Ad un certo punto, Mario aprì gli occhi in maniera decisa.
“Ah, sei lì! Mi spiace per te, ma ti ho trovato!” disse, proprio in quel momento, il suo avversario.
Ma, prima che l’altro potesse fare nulla, il giovane si proiettò a tutta velocità fuori dalla sua quasi inesistente protezione e si lancia dall’altra parte del piazzale. Una catena lo stava per colpire, ma lui riuscì ad evitare abilmente il colpo, e poi sparò quasi alla cieca verso il suo avversario ma il proiettile mancò completamente l’obiettivo e si conficcò nella parte alta della palazzina mezza-distrutta di prima.
“Beh, direi proprio che hai sbagliato a mirare.”
Ma Mario, sorprendentemente, si mise a sorridere, soddisfatto. Infatti, dopo pochi secondi, alcuni pezzi del tetto che aveva appena colpito si staccarono e – abbastanza velocemente – tutta la palazzina collassò direttamente sopra quello strano uomo, che ne venne completamente travolto, senza via di scampo.
Il giovane, noncurante, si avvicinò alle catene di quell’uomo e – dopo aver rimesso al suo posto la pistola – cominciò ad esaminarle, interessato. Quel tizio bizzarro le muoveva con piccoli movimenti delle dita, quasi impercettibili, come se in realtà usasse il pensiero o – comunque – qualche strano potere.
Però, prima che il ragazzo potesse rendersene conto, la catena in questione gli si attorcigliò attorno al braccio, mentre l’altra gli bloccò i movimenti del corpo. A quel punto, l’uomo uscì fuori dalle macerie quasi completamente sano: aveva più parti del corpo completamente danneggiate, ma anche da lui – come dal fratello – uscirono dei componenti meccanici.
Prima ancora che Mario si potesse sorprendere della scoperta appena fatta – ovvero che il suo avversario era una strana specie di androide -, le catene gli si strinsero attorno così forte che il suo braccio venne completamente spappolato e la cassa toracica dovette sostenere una compressione incredibile.
Le urla disperate del ragazzo si sparsero nel cielo azzurro di Osaka.

Kiba era completamente sconvolto: giaceva inginocchiato, con le gambe molli e le braccia abbandonate lungo il corpo e con un’espressione di terrore e di disgusto in faccia, di chi non voleva credere a quello che aveva appena sentito.
Approfittando di questo stato quasi catatonico del suo avversario, lo Yakuza lo circondò completamente con le sue catene, in modo da bloccarlo. Ma quella protezione durò ben poco: una quantità impressionante di energia uscì dal corpo del dodicenne e spezzò le catene in mille pezzi.
Il potere fuoriuscito da Kiba in quell’occasione era di strana matrice: penetrava direttamente nella pelle di tutti coloro che gli erano accanto e gli trasmetteva paura, ma anche una grande eccitazione. Intanto, gli occhi del ragazzo erano diventati bianchi e i capelli erano completamente spettinati e sparpagliati verso l’alto da quella incredibile ventata di energia.
“Uff… che sensazioni! Si vede che questo è il potere… di un mostro!”
Alla parola “mostro”, qualcosa cambiò nel giovanotto. L’iride tornò al suo posto, ma era di un blu intenso, e la pupilla gli era diventata stretta e verticale, tanto da far impressione. Inoltre le cicatrici avevano cominciato a bruciargli e a diventare di colore rossiccio. I canini e le unghie, poi, gli si erano allungati, e sembrava che il giovane non riuscisse più a stare in piedi ma potesse muoversi solo a quattro zampe, come un animale. Come un lupo.
Il potere di cui era custode continuava a fuoriuscire da lui e sparpagliarsi nell’atmosfera, ormai fuori controllo.
Non appena il giovane si mosse, il suo avversario si accorse che i suoi movimenti erano troppo veloci per essere percepiti da occhio umano – o, nel suo caso, bionico – e si accorse dell’errore che aveva fatto, nel provocarlo.
Il ragazzino lo colpì più volte senza alcun controllo: testate, zampate, dentate era tutto ciò che riusciva a dare, muovendosi alla velocità della luce unicamente grazie a balzi e a cambi di direzione improvvisi. Dopo qualche minuto, ormai completamente ferito ed aperto in più punti, lo Yakuza si inginocchiò a terra, completamente atterrito da quella potenza e da quella ferocia.
In quel momento, allora, Kiba si alzò in piedi – pur rimanendo tutto storto – e puntò l’uomo con uno sguardo completamente privo di ogni umanità e compassione: era puro male, pura cattiveria. A quel punto, preparò la mano destra – facendo uscire ancora di più i suoi artigli – e poi scomparve nuovamente nel nulla.
Persino il suo avversario non si rese conto di nulla: nel giro di una frazione di secondo, il moretto si ritrovò dall’altra parte rispetto al suo nemico, con il suo cuore ancora pulsante in mano. L’uomo, in compenso, guardò qualche minuto in modo assente davanti a sé, prima di collassare definitivamente in una pozza di sangue.
A quel punto, Kiba ebbe un giramento, si riappropriò della sua forma umana, e svenne all’istante. A fermare la sua caduta all’indietro, furono le gambe di uno strano ragazzo vestito con una altrettanto bizzarra tuta nera, piuttosto attillata e con mille tasche e protuberanze, quasi fosse una divisa di una qualche task force.
Nello stesso momento, un giovane vestito esattamente come quello apparso dal moretto, si contrapposero tra Mario e il suo nemico. Vedendo che il nuovo arrivato sembrava stare dalla sua parte, il ragazzo dai capelli arancioni si lasciò vincere dal dolore e cadde a terra, privo di sensi.
Yamato

Ecco a voi il secondo capitolo, ben più corto del primo (come si confà ai manga asd), ma non per questo meno interessante. Le rivelazioni vere e proprie, ovviamente, devono ancora aspettare, però sin da questo secondo capitolo ne escono elementi piuttosto interessanti. Leggetele e commentatelo tutti, nel topic apposito!!
Enjoy it!

Capitolo 002
Resistence



Fiamme rosse avvolgono una costruzione in stile barocco, con il simbolo del crocifisso sull’entrata. Alcuni uomini vestiti di nero, da fuori, osservano sorridendo. All’interno, invece, si sentono le urla di donne e di bambini mentre un ragazzino dai capelli arancioni si guarda intorno, spaventatissimo, cercando un’uscita.
Le immagini sono confuse e i suoni pure: grida, lamenti, pianti; corpi che si contorcono, arsi dalle fiamme. Alcune donne velate di nero e bianco – suore, probabilmente – sono a terra, che tossiscono per via del fumo che invade quella strana abitazione. I letti in legno, i mobili, il parquet… tutto, tranne i muri di calce, sta andando a fuoco.
Fuori si sentono risate soddisfatte, crudeli, demoniache. Il bambino di prima continua ad osservare attorno a lui, camminando a quattro zampe. I suoi piccoli occhi azzurri sono attentissimi, e la sua testa leggermente sproporzionata rispetto al corpo sta elaborando miriadi di informazioni, per trovare la soluzione migliore.
Ma la confusione più totale alberga in lui. Non sa cosa fare, e continua ad avanzare come se nulla fosse. Ad un certo punto, però, vede una finestra vicina ad una zona più sicura, non ancora raggiunta dal fuoco. Il ragazzino prende la rincorsa e si getta attraverso il vetro di essa, infrangendolo e facendone mille pezzettini, mille piccole schegge.
Appena fuori, si guarda nuovamente intorno: altre fiamme, altro fuoco. Questa volta, però, davanti a lui si erge l’imperiosa immagine di una fabbrica che sta bruciando completamente. Si sente solo il crepitio delle fiamme che consumano ogni cosa e che riescono ad illuminare persino il cielo scuro della notte più buia dell’anno.
Fa freddo, malgrado il fuoco sia proprio davanti agli occhi del bambino. Poi, ad un certo punto, il ragazzino scorge un altro bimbo vicino alle fiamme, con il volto completamente ustionato. Gli si avvicina e, senza pensarci due volte, lo prende in braccio e lo porta lontano da quell’inferno.
Le guance di quello strano personaggio appena trovato sono completamente arse dalla violenza del fuoco e le ustioni sembrano prendere la forma di due zanne. “Kiba”. Inoltre, al braccio sinistro, porta un braccialettino con un nome che - per via dell’intenso calore – gli si è ormai tatuato addosso per l’eternità: “Okami”, “lupo”.
“Kiba Okami”: la zanna del lupo.

Mario si svegliò di soprassalto, madido di sudore. Aveva gli occhi spalancati e terrorizzati e una nausea improvvisa lo assalì. Poi, appena mise a fuoco la situazione, deglutì la bile che gli era risalita. Era steso su un futon messo per terra, nel mezzo di una strettissima stanza scolpita nella roccia. Accanto a lui, c’erano quattro persone.
La prima che notò fu il ragazzo che lo aveva soccorso: era molto alto e robusto, anche se la tuta nera ed attillata che indossava non faceva che mettere in risalto la sua possente muscolatura; aveva i capelli biondo scuro, lunghi fino alle spalle, leggermente spettinati e tendenti verso l’esterno; due occhi marrone chiaro lo osservavano, accompagnati da uno splendido e bianchissimo sorriso felice.
Accanto a lui c’era un altro tipo con la stessa tuta, ma leggermente più basso e meno muscoloso. Aveva un viso piuttosto piatto, scazzato e sembrava impedito a sorridere. I capelli castani, lisci e perfettamente ordinati prendevano la forma di un casco perfetto attorno alla testa del giovane. Infine, aveva due occhi piuttosto piccoli, dello stesso colore della sua capigliatura, che fissavano Mario con assoluta piattezza e – se possibile – anche un certo sentore di superiorità.
Poi, accanto al suo letto, il ragazzo dai capelli arancioni notò una bellissima giovane: aveva una lunga chioma di capelli rosa raccolti in uno chignon e due occhi verdi piuttosto grandi ed affascinanti. Aveva i lineamenti fini, era piuttosto magra ed aveva un fisico piuttosto slanciato, ma con le curve - e che curve! pensò Mario, ancora intontito - al posto giusto. Infine, indossava un vestitino e una cuffietta bianca che ricordavano molto da vicino la divisa di un’infermiera.
Accanto ai quattro, c’era un sorridente Kiba. Tuttavia, nello sguardo del giovane c’era qualcosa di strano, come se volesse evitare un contatto diretto con gli occhi di tutti gli astanti. Difatti, benché sorridesse, teneva la testa – e soprattutto gli occhi – leggermente abbassata. Poi, ad un certo punto, un flash apparve nella testa di Mario.
“Kokoro!!” esclamò.
“Tranquillo” sorrise l’infermiera
“E’ al sicuro, alla casa-orfanotrofio, sotto la protezione di due nostri uomini. Anzi, ci spiace davvero di essere arrivati tardi, ma purtroppo abbiamo capito troppo tardi che Kiba era nelle mire di…”
“Sakura-chan!” la fermò lo scazzato.
“Calmati, Yagami-kun” lo riproverò, quasi sorridendo, il biondo.
Dopodichè, Mario si appoggiò sui gomiti e fece per alzarsi, ma si accorse che qualcosa non andava e a momenti ricadeva nuovamente disteso. Poi ricordò gli ultimi attimi del suo combattimento con lo Yakuza, e si osservò sorpreso il braccio: anche se aveva una strana sensazione, sembrava tornato tranquillamente al suo posto.
“Si chiama Ugoku. E’ un arto artificiale che viene collegato direttamente ai nervi e che ha un aspetto e una consistente simile ad un normale braccio umano, se non fosse che è completamente costruito con le nano-tecnologie. Purtroppo si tratta di procedimenti base, quindi si limita a riprodurre le funzioni di un arto umano, senza nulla di nuovo o strano” spiegò, con precisione matematica, Sakura.
Mario le sorrise, e lei ricambiò dolcemente.
“Mi spiace, ma l’originale non ci è stato possibile salvarlo” precisò la ragazzina, quasi con colpa.
“Beh…” fece il ragazzo dai capelli arancioni osservando il nuovo braccio
“poco male!”
“Se abbiamo finito i convenevoli, io passerei alle cose importanti” interruppe Ogami, serio
“Io sono Rei Ogami – il mio compagno invece si chiama Masaru Hikaru – e facciamo parte del gruppo chiamato Resistence. Per la precisione, siamo entrambi ufficiali, solo di un grado inferiori al comando dell’organizzazione.
Siamo operativi da cinque anni circa, e il nostro obiettivo è opporci all’illegittimo governo della Yakuza. A dire il vero, proprio in questi giorni stavamo preparando un attacco al cuore dei mafiosi: la Torre Centrale. Anzi, se vorrete darci una mano…”
“Ma che fai? Tenti già di reclutare nuova gente?” fece, scherzando, Masaru
“Io, come già detto dal mio socio, mi chiamo Masaru Hikaru e sono un ufficiale della Resistence. Non nego che ci servirebbe aiuto per il prossimo attacco, però credo che prima sia lecito informare Mario – e, su alcuni punti oscuri, anche Kiba – di ciò che è successo e del perché siete stati presi di mira dagli Yakuza.
Purtroppo posso dirvi poco, perché non sappiamo molto nemmeno noi, però… innanzitutto, Kiba potrebbe non essere umano.”
Passando oltre alla faccia completamente sbigottita di Mario e al quasi impercettibile sussulto del moretto, Masaru continuò imperterrito:
“Stando alle nostre informazioni, lui potrebbe essere un Karakuri, ovvero un cyborg facente parte di uno strano progetto della Yakuza, cominciato parecchi anni fa e – almeno ufficialmente – annegato per strada, per motivi sconosciuti.
Cosa comporti questo e perché i mafiosi vogliano il nostro Kiba proprio non ve lo so dire, ma d’ora in poi per voi rischia di farsi sempre più dura. Abbiamo scoperto solo il giorno in cui siete stati attaccati tutta questa faccenda, e purtroppo più di così non ne sappiamo. L’unico indizio che abbiamo, tuttavia, ci porta proprio dall’altra parte della Torre Centrale, dove si sono insediati gli Yakuza…”
“Karakuri?! Cyborg?! Il giorno in cui siamo stati attaccati?!”
Mario non ci capiva più nulla.
“Sì: hai dormito per tre giorni!” fece, sorridente, Masaru.
“Piantala con le informazioni inutili, e vedi di spiegargli la situazione nel dettaglio” fece, impassibile, Rei
“Tu pensa a Mario, io mi occupo di Kiba. Vieni, ragazzo, ti devo mostrare una cosa.”
Yamato

Ed eccoci qui con il terzo capitolo!! Spero di essere riuscito, stavolta, a fondere meglio descrizioni e azione, in un capitolo che ci da qualche informazione in più ma che - soprattutto - comincia anche a delineare il mondo in cui è ambientata la storia e anche le condizioni in cui è sorta e sta combattendo la Resistence. E' un capitolo, a mio parere, piuttosto bello e completo dalla parte dei contenuti. Quindi, leggete e commentate!! Enjoy it ;)
ps: per l'ultima parte del capitolo, si ringraziano i Guns 'n roses e la loro splendida "Knockin' on heaven's door", che sto sentendo a ripetizione da stamattina xD


Capitolo 003
La città sotterranea


Kiba rimase qualche secondo immobile, senza sapere esattamente cosa fare. Poi, sotto lo sguardo severo di Rei, decise di seguire il ragazzo. Tuttavia, mentre i due si apprestavano ad uscire, Mario scattò in piedi e fermò il moretto mettendogli una mano sulla spalla.
Il ragazzino si voltò lentamente e mise la propria mano su quella dell’amico. A quel punto cominciò ad accarezzarla dolcemente e sorrise ingenuamente al compagno.
“Tranquillo, andrà tutto bene. Sento che mi posso fidare.”
Il ragazzo dai capelli arancioni squadrò prima Kiba e poi Yagami, e infine acconsentì affinché il moro potesse seguire il membro della Resistence. Dopodichè si volto, e tornò a sedersi sotto le facce divertite dei presenti.
Il moretto, invece, era appena uscito dalla stanza in cui si trovavano e aveva preso una strada mai percorsa prima: nel sottosuolo, in mezzo alla fogna e ai tubi di scarico, sorgeva una vera e propria città.
La gente, ridotta in misera, era accatastata ai lati della strada, coperta di stracci e vestiti malridotti. C’erano donne, vecchi e bambini, ma nessun ragazzo o uomo adulto. Prima che Kiba potesse dare sfogo alla sua curiosità, Rei cominciò a parlare.
“Solo chi combatte, può vivere decentemente. Siamo poveri, e abbiamo solo degli spazi limitati per far stare le persone e non possiamo sprecarli per quelli che non ci sarebbero utili. So che è crudele, ma tutti i ragazzi che stanno combattendo lo stanno facendo per le loro famiglie, per poter portare loro un po’ di cibo o di sostegno. Purtroppo dobbiamo adottare metodi del genere, se no rischieremmo di restare così per l’eternità. In questo modo, almeno, possiamo combattere per riacquistare ricchezze e libertà per tutti, una volta per tutte, finalmente. Penserai che siamo dei mostri senza cuore non troppo dissimili dai nostri avversari, giusto…?”
“No. Però… allora anche tu stai combattendo per…”
“Nessuno. I miei sono morti due anni fa, uccisi dagli Yakuza. Mia sorella, invece – per via delle precarie condizioni di vita – ha contratto la tubercolosi e mi ha lasciato da solo ormai sei mesi or sono.”
Kiba, quasi d’istinto, abbassò lo sguardo.
“Tranquillo, non mi da fastidio parlarne. E poi, diciamocelo, tu sei messo peggio di me da questo punto di vista.”
Per la prima volta, Rei sorrise.
“Beh… io ho Mario” fece il moro.
La distesa di baraccopoli fatte di residui di legno, macerie e cartoni sembrava non finire mai, così come le persone accatastate ai lati del condotto fognario, che passava proprio nel bel mezzo di quella città sotterranea.
“Il problema più grande…” ricominciò Yagami, come se leggesse nel pensiero di Kiba
“è l’acqua. Ultimamente stiamo riconquistando un buon numero di pozzi cittadini, ma la lotta è sempre aperta e un anno fa – quando mia sorella si ammalò – eravamo in piena crisi: la Yakuza stava pian piano riprendendo terreno, e a noi non rimaneva quasi più acqua potabile.”
Il ragazzino non capiva perché quel giovane gli facesse tutte queste confidenze, e si limitò ad annuire e a stare ad ascoltare attentamente.
Sopra il canale fognario era stata costruito uno strano impianto, fatto di carrucole e corde: ad esso c’erano appesi dei secchi, uno per famiglia, e serviva a far arrivare l’acqua. Ogni casa aveva il proprio secchio e il proprio sistema di carrucole, che veniva però controllato da alcuni bambini, che così tentavano di portare a casa qualche spicciolo per aiutare la famiglia.
Purtroppo, anche tra bisognosi si doveva essere spietati e in competizione, anche se uniti dalla sicurezza che prima o poi tutto sarebbe cambiato. La Resistence, d’altro canto, poteva offrire ben pochi servizi, se no non gli sarebbe stato possibile mantenere l’arsenale utile a contrastare gli Yakuza.
“Ah!” esclamò Kiba, davanti allo spettacolo che gli si parò di fronte.
Un’immensa parete era completamente coperta da antiche iscrizioni ed incisioni, che formavano un enorme murales scritto in caratteri ormai da troppo tempo perduti. Erano delle figure stilizzate, antenati degli odierni kanji – il tipo di scrittura utilizzato in Giappone.
I colori quell’enorme pagina di muro variavano dal rosso porpora al blu notte, e i toni della storia lì raccontata sembravano – a prima vista – epici, ma non necessariamente allegri. Si respirava un’aria esoterica, mistica, ai limiti del religioso.
“E’ una leggenda…” esordì Rei
“e tempo fa era anche una religione, ma dopo che il papato si è impegnato nella soppressione di tutti i culti diversi dal Cristianesimo, ne è rimasta poco più che una credenza… e una fonte di ricerca storica e scientifica.”
“Soppressione dei culti?”
“E’ avvenuta all’incirca 200 anni fa. Vero è che noi qui abbiamo gli Yakuza, ma devi sapere che – a conti fatti – anche il mondo intero ormai è sotto il controllo di un’organizzazione che non ha molto di diverso da una cosca mafiosa: si tratta del papato, che per ottenere un potere completo sul mondo, ha abolito – talvolta anche con la forza – ogni culto differente dalla loro religione.
A dire il vero, esistono ancora alcune sette che – tramite il pagamento di tangenti, e sotto il diretto controllo del Vaticano – possono ancora esercitare i loro riti e i cui dei e demoni vengono ancora accettati. Ma anche questo è solo uno stratagemma per mantenere il controllo: basti vedere, ad esempio, il culto del Dio della Morte, in Egitto.”
“Il culto del Dio della Morte…?”
“In breve, pensano che esista un Dio della Morte che – grazie ad una vista particolare e alla sua falce – possa vedere il filo rosso della vita di ogni persona e tagliarlo quando per lei è giunto il momento di morire, o percuoterlo per provocare malessere e malattie.
Ma i potenti capi di questa setta, ormai, sembra che utilizzino certe credenze popolari solo per ridurli in schiavitù ed obbligarli a lavorare per loro.”
A quel punto, ci fu un attimo di silenzio. Dopodichè, Rei ricominciò il suo discorso:
“Ma ora passiamo alle iscrizioni che ci interessano. Come ti dicevo, questa è una leggenda e – più o meno – la storia è questa…:
C’erano una volta tre potentissimi animali: il lupo, l’aquila e la tigre. Un giorno, però, vennero disturbati nel loro ambiente naturale da dei cacciatori che volevano le loro preziose pelli, piume, artigli e becchi. Per il tre animali sembrava non esserci più scampo, finché non sopraggiunsero tre fratelli.
Questi uomini impavidi aiutarono i tre animali, e li nascosero in casa loro. Poco dopo, però, i fratelli si ammalarono e morirono nel giro di qualche mese. Però, i lamenti degli animali giunsero fino a Dio, che concesse loro di trascendere la forma carnale e diventare solo spirito, per alimentare i corpi di quegli sfortunati.
Gli animali accettarono, e si fusero con i tre fratelli, facendoli tornare in vita. Quegli esseri che avevano sconfitto addirittura la morte, vennero chiamati “Karakuri”.

Kiba ebbe un sobbalzo.
“Però…” fece Rei
“purtroppo la leggenda si interrompe lì. Anche se c’è questo carattere…”
E, a quel punto, gli mostrò un simbolo leggermente sbilenco, formato da tre linee orizzontali attraversate in punti diversi da un’unica linea verticale.
“… che ci fa supporre, se proprio non ce ne da la certezza matematica, che la leggenda continui al di là di questo muro…”
E indicò un muro enorme che, effettivamente, interrompeva lì le iscrizioni – e la strada.
“… raccontandoci come continua la storia dei Karakuri. Ovviamente non ne possiamo essere sicuri, e non possiamo nemmeno dire che le informazioni che ci saranno nella seconda parte della leggenda possano esserci di alcun aiuto, però secondo me sarebbe da tentare.”
“E allora perché non andiamo lì?”
“Perché quella è la Torre Centrale, il quartier generale degli Yakuza.”
Yamato

Ed ecco a voi il quarto capitolo di "Karakuri", l'ultimo di quelli "rimasterizzati": dal prossimo, inizia la storia inedita!! Qui vediamo una parte molto interessante di Mario, e Kiba inizia finalmente a prendere le prime decisioni importanti per il proseguimento del racconto. Scusate per il ritardo, ma ho avuto gli esami e poi il trasferimento a Torino, quindi veramente poco tempo. D'ora in poi, spero di poter aggiornare con più frequenza!! E ora leggete, e commentate! Enjoy it ;)

Capitolo 004
Il piano di Mario


“Allora, ricapitoliamo…” fece, lentamente, Mario
“la struttura della Torre Centrale – mi avete detto – è la seguente:
il primo piano è adibito solo all’accoglienza dei vari “clienti”, e per questo viene protetto unicamente da un servizio di guardie basilare. Tuttavia, rimane comunque una squadra ben armata e decisamente superiore a noi in fatto di numero e potenzialità offensive. Il che ci fa capire che i problemi inizieranno sin da subito, eh?”
Il ragazzo sorrise per un attimo, guardò brevemente tutti gli ufficiali della Resistence – ben infagottati nelle loro giacche di velluto povero, di colore blu - che si erano riuniti ad ascoltare quello che aveva escogitato, poi tornò a chinare il capo sulla cartina della Torre Centrale che aveva ricostruito grazie alle precise indicazioni di Masaru.
“Dopodichè, ci sarebbero due vie da prendere. Dico “ci sarebbero”, siccome i sotterranei – ovvero l’obiettivo mio e di Kiba – sono protetti da sensibilissimi sistemi che non farebbero passare nemmeno una mosca, senza l’apposito pass. Che si trova, invece, all’ultimo piano.
Giusto per specificare: non abbiamo ancora la più pallida idea di cosa si possa trovare in quei sotterranei, ma sappiamo solo che sono informazioni segretissime e riservate che sembrerebbero essere legate ai Karakuri.”
Altra occhiata al proprio pubblico, prima di proseguire.
“E ora viene il bello: per arrivare all’ultimo piano della Torre, dobbiamo superare ben tre livelli di guardie. Il primo è, appunto, al piano terra: le scale sono esattamente davanti all’entrata, leggermente scostate sulla destra rispetto alla scrivania.”
E, così dicendo, punto il dito in un punto preciso della mappa, invitando tutti gli altri a chinarsi per vedere.
“In questo frangente dovremo usare tutte le guardie a nostra disposizione, possibilmente con il minimo armamento possibile. Il loro compito sarà semplicemente quello di creare un varco verso le scale, un modo da far passare i generali e gli ufficiali di alto grado, assieme a me e Kiba.”
“Ma così…!” fece un generale.
“Mi lasci finire, la prego” fece, impassibile, Mario.
Dopodichè, prese alcune pedine e le mise a formare una via che conducesse alle scale, sulla mappa. Gli altri omini, invece, li posizionò al secondo piano.
“E così agiremo anche al secondo livello. Qui hanno luogo gli uffici della Yakuza, compresi quelli di ricerca, e quindi c’è ovviamente un plotone speciale pronto a difendere le importantissime informazioni che vengono elaborate a quel piano.
Motivo questo per utilizzare, il meglio armati possibile, tutti i vostri ufficiali: il loro compito sarà similare a quello dei vostri soldati semplici, ovvero di lasciar passare un piccolo contingente in modo che possa puntare senza troppi problemi alla stanza del boss. I fortunati che seguiranno me e Kiba saranno – e non voglio sentire obiezioni su questo – Rei Yagami e Masaru Hikaru.”
Questa affermazione fece abbastanza clamore, e un leggero borbottio di malcontento di alzo da tutti i generali lì presenti.
“Infine…” proseguì Mario, senza badare al rumore
“arriva la parte più difficile: nel corridoio che conduce alla stanza del boss della Yakuza saranno appostate le speciali body-guards che hanno il compito di occuparsi della protezione del loro capo. Ecco perché mi servono gli uomini che ho detto prima: saremo un piccolo contingente, ma ben preparato e capace di collaborare. E starà a noi sfondare queste ultima mura difensive, e andare a conquistare la tanto agognata chiave dei sotterranei… e la libertà, per la vostra città.”
“Questo piano è uno scandalo!!” esplose, subito, un tipo dai capelli grigi e dal viso austero
“Tu vuoi usare i nostri agenti come pedoni sacrificabili e…”
“Esatto. Ed ovvio, direi. Gli agenti di un’organizzazione offrono la loro vita per essere dei pedoni sacrificabili. Per questo esistono le gerarchie: per decidere chi dovrà morire, quando l’unica speranza di vittoria sarà possibile sono facendo i conti con delle vittime.”
I piccoli occhi azzurri di Mario penetrarono completamente quelli dello stesso colore e delle stesse dimensioni dell’impervio generale.
A quel punto insorsero altri due ufficiali di altro grado: un ragazzino – non avrà avuto più di venticinque anni - biondo, con gli occhi azzurri e con un accenno di barba piuttosto incolta dello stesso colore dei capelli; e un signore di una quarantina d’anni, dal viso tondeggiante e della folta chioma di capelli neri, che guardava Mario attraverso sue occhiali dalle lenti sottili.
“Questa è pazzia!!” fece il primo, completamente fuori di sé
“Perché dobbiamo stare a sentire questo coglione?! Ma siamo veramente fuori, dico io!!”
E, detto questo, fece per scagliarsi contro il ragazzo dai capelli arancioni, ma l’altro ufficiale lo fermò con un gesto del braccio.
“Forse il signor Mario non ha ben capito il compito e l’obiettivo della Resistence: noi siamo qui per liberare la città dal governo della Yakuza, per poter far vivere in pace i nostri componenti e le loro famiglie. Non abbiamo alcuna intenzione di attaccare, se c’è un rischio così elevato di vittime inutili.”
“Non sono inutili, sono la chiave del successo” ribatté Mario.
“Allora perché non ci vai tu, in prima linea, brutto stronzo?!” fece il biondo.
“Primo: uno da solo non servirebbe a nulla; secondo: lo stratega deve poter avanzare il più possibile, per dare nuovi ordini nel caso le cose si mettano male.”
“Tu non sei un generale, non hai nessun ordine da dare!”
“Forse non ti è chiara una cosa: se accettate il mio aiuto, voi dovrete obbedirmi ciecamente. Io sarò al comando delle operazioni, e su questo – come sui dettagli del piano – non ho intenzione di discutere.”
“No!” fece una voce nota, in direzione della porta.
A quel puntò spuntarono Kiba e Rei, il ragazzino con i pugni chiusi dalla rabbia.
“Mario… ci conosciamo da tanto tempo, e so come sei fatto. So che quando si tratta di comandare, tendi a trattare tutti come pedine… ma non posso lasciartelo fare” fece il moretto.
“Kiba… questo è l’unico modo!”
Il ragazzo dai capelli arancioni, tutte le volte che parlava e si ritrovava a discutere con il suo amico, sembrava in evidente difficoltà. Il raziocinio e la freddezza di prima era sparita in un attimo, e il giovane era immediatamente arrossito, partendo dalle orecchie per poi arrivare fino a farsi avvampare le guance.
“No, ho un’altra idea!”
Tutti guardarono il moro con aria indispettita, ma curiosa.
“Quelli han detto di volere me, dico bene?”
Gli altri annuirono.
“Allora è semplice: chiederò io stesso un faccia-a-faccia con il boss della Yakuza, e a quel punto me la vedrei io con lui. Lasciatemi due ore: se dopo quel lasso di tempo non sono ancora tornato… beh, seguiremo il piano di Mario.”
“E tu, cosa avresti intenzione di fare?” ribatté il biondino, con un sorriso soddisfatto e di sfida in volto.
“N-non lo so, ancora. Ho solo un abbozzo di idea, però… beh, sì, potrebbe funzionare.”
“Allora parlacene” insistette, sempre sbeffeggiando il ragazzino, il generale di prima.
“Dunque… le mie condizioni saranno di incontrare il boss senza nessun altro ad assistere. Questo mi darà l’opportunità di giocarmi la mia partita con lui: tenterò di carpire la più grande quantità di informazioni possibili, di capire il loro obiettivo, e anche di comprendere… beh, sì, comprendere chi sono io, veramente. O forse dovrei dire “cosa sono”.
E poi, per voi, posso provare a far cedere il boss della Yakuza usando la retorica e la mia abilità nel parlare… ma ammetto di non nutrire troppa fiducia in questa parte del piano. Quindi temo che mi dovrò misurare con lui in combattimento…”
“No, mi rifiuto! Non ho intenzione di metterti in pericolo, quando il piano più congeniale alla riuscita delle operazioni è già bello che deciso!!”
“Mario…” fece Kiba, prendendo la mano all’amico e cominciando ad accarezzargliela
“ti fidi di me?”
Il colorito del giovane tese sempre di più al viola.
“B-beh, sì, certo… però…”
“No, niente però, e niente ma” tagliò corto il moretto
“Se ti fidi di me, allora fallo fino in fondo, anche nel momento del pericolo e della necessità. Tanto, se dopo due ore non sono tornato, hai il permesso di entrare con i tuoi mezzi.”
A quel punto, Mario si arrese.
“Ok, accetto anche io.”
Poi, rivolto ai comandanti:
“E voi, non state lì impalati! Andate a preparare i soldati e a fare la conta delle armi, che entro domani mattina dobbiamo aver diviso l’arsenale e dobbiamo aver istruito i vostri uomini sul da farsi, in modo da entrare in azione, se ce ne fosse bisogno!
E ricordatevi che, nel caso Kiba riesca nel suo piano, potrebbe sempre scoppiare una guerra senza quartiere, per tutta la città. Come vorrete voi, non ci saranno vittime prestabilite, ma ci sarà comunque da combattere! Quindi forza, in azione, subito!!”
Yamato

Eccoci, finalmente, con il primo capitolo inedito di "Karakuri": la storia prosegue con l'incontro tra Kiba e il boss della Yakuza di Osaka. Ultimamente ho notato che la storia non viene più recensita - sarà forse colpa del fatto che i capitoli narravano di fatti già descritti in precedenza? - quindi volevo invitarvi a commentare - nell'apposito topic, of course -, così so se la storia garba e se vale la pena andare avanti, oppure se devo darle un finalino affrettato alla fine di questa prima saga.
Leggete, divertitevi, e commentate (anche se fossero critiche, a patto che siano costruttive!!).

Capitolo 005
Incontro con il boss


L’ufficio del boss della Yakuza era molto grande e – soprattutto – spazioso. Si trovava all’ultimo piano della Torre Centrale e grazie ad un enorme finestra che copriva tutto il muro dietro alla scrivania, si poteva vedere e dominare tutta la città.
I muri erano tutti completamente bianchi, e formavano un quadrato perfetto intervallato da sole due porte: una da cui si entrava nello studio, e l’altra sulla destra, a cui poteva accedere solo il capo della mafia di Osaka.
Il pavimento era una grande lastra di marmo nero, impreziosito da disegni di ogni tipo. L’effetto visivo che regalava era incredibile, quasi vertiginoso. Inoltre, i riflessi che provenivano dalle pietroline incastrate in quel prezioso minerale erano quasi stordenti.
Infine, al centro perfetto della stanza, c’era la scrivania del boss: in pregiato legno di frassino, era tuttavia molto semplice. Non c’erano cesellature o incisioni particolari, bensì si trattava di un normale banco da lavoro, in legno resistente, senza altre qualità estetiche di gran pregio. Il che era decisamente in contrasto con la sontuosità del resto dell’ufficio.
Inoltre era ricoperta solamente da una lampada per fare luce la sera, e qualche scartoffia che copriva il banco in legno. A primo impatto, sembrava più la scrivania di un normalissimo notaio di periferia, piuttosto che quella del reggente di un’intera – ed importante – città come poteva essere quella di Osaka.
Quando Kiba entrò in quel posto bizzarro, si sentì leggermente confuso, ma comunque in soggezione. Non appena fece un passo dentro la stanza, vide oltre la sedia un ometto piuttosto basso, piuttosto robusto e tarchiato, che gli faceva segno di avvicinarsi.
Era un uomo di mezza età, completamente rasato, con due piccoli e penetranti occhi nerissimi. Aveva il naso a patata abbastanza grassoccio, e un leggero sorriso. Sprofondato nella propria poltrona e vestito di tutto punto con uno smoking di colore blu che intervallava strisce più scure ad altre più chiare, invitava Kiba ad entrare con un gesto della mano, da cui risaltavano abbastanza le grasse dita a salsicciotto. Infine, la cravatta dello stesso colore del completo gli restava mollemente appoggiata sulla larga pancia che si ritrovava.
Il moro si avvicinò lentamente, come se ad ogni passo rischiasse che il pavimento crollasse sotto i suoi piedi. Gli sembrava che fosse andato tutto troppo bene, sino ad ora: si era presentato di prima mattina alle porte della Torre Centrale e si era come consegnato nelle mani degli agenti, chiedendo però un confronto faccia-a-faccia con il loro capo, giacché era lui a volerlo. Loro, incredibilmente, avevano acconsentito e lo stesso aveva fatto il boss. Il tutto gli sembrava anche troppo irreale, motivo per cui procedeva assolutamente con i piedi di piombo.
Non appena arrivò a metà stanza, si accorse che una sedia traballante – o almeno così gli sembrava a prima vista – era stata messa esattamente davanti alla scrivania del capo della Yakuza, apposta per lui. Kurono Neko – “il gatto nero” – così era chiamato il reggente di Osaka.
Beh… pensò Kiba, quasi sorridendo
lui sarà anche un gatto nero, ma dopotutto io sono un lupo! Dico bene…?
“Prego, siediti” fece lui con la sua voce melliflua, vedendo l’incertezza e l’esitazione del ragazzino.
Il moretto, sedendosi, si mosse molto lentamente, aspettandosi che la sedia – come minimo – si disintegrasse sotto il suo peso, lasciandolo a terra, gambe all’aria. Una volta seduto, poi, piegò leggermente le gambe all’indietro e afferrò con le mani la parte sotto della sedia, per tranquillizzarsi.
In quel momento, poi, il giovane si accorse anche che sulla sinistra della stanza c’era un grande orologio bianco con i contorni d’argento. Erano le dieci e mezzo di mattina, e lui aveva fino a mezzogiorno per sistemare i conti una volta per tutte: dopodichè, sarebbero entrati in azione Mario e le forze della Resistence. Tuttavia, il moro voleva evitare di far scoppiare una guerra senza quartiere per le vie della città.
“Allora, prego…” fece, sempre con tono suadente, ‘Kurono Neko’
“qual buon vento ti porta qui? Intendo dire, per quale motivo ti sei addirittura consegnato alle mie guardie, pur di parlarmi? Avanti, dimmi, cosa vorresti da me?”
Il momento era giunto: con quella domanda, iniziava il round finale per la supremazia di Osaka.
“K-Karakuri…” biascicò Kiba.
“Mh?”
“Cosa sono?”
“Cosa sono… i Karakuri?”
Il boss della Yakuza aveva uno strano ed inquietante sorriso sul volto.
“Cosa sono… io?”
“Comprensibile il tuo interesse, dico davvero. Ma, forse, necessiti di una piccola introduzione, dico bene?”
Kiba, senza manco sapere il perché, annuì.
“I Karakuri, nei tempi moderni, non sono altro che persone che sono state salvate dalla morte grazie alla meccanica: sono persone che hanno accettato di divenire dei robot, in cambio di un prolungamento – in alcuni casi anche abbastanza consistente – della vita. Insomma, nulla di illegale o moralmente sbagliato. O almeno, questa è la versione ufficiale…”
“Versione ufficiale?”
“Sai qual è il vero motivo per cui la tecnologia “Karakuri” non è accettata dalla comunità mondiale?”
Kiba non rispose.
“Perché, se fosse accettata, allora verrebbe assecondato anche un altro utilizzo che se ne può fare….”
Un brivido percorse la schiena di Kiba.
“Esatto, è proprio come hai appena pensato: riportare in vita i morti. E, discorsi moralistici a parte, sai qual è la cosa che più spaventa del poter riportare in vita delle persone con la tecnologia…?”
Di nuovo silenzio.
“La possibilità di crearsi un esercito personale!”
A quel punto, gli occhi del boss si impallarono, facendo trapelare quasi una lucida follia da quell’uomo prima gentile e compassato.
“C’era tanto tempo fa… anzi, no, sono passati solo dodici anni da allora. Dicevo, dodici anni fa c’era una fabbrica molto importante in città, fondata da me in persona. Quella fabbrica, ufficialmente, si occupava di automobili… ma è facile intuire che quella fosse solo una copertura. Quel complesso edile, in realtà, celava in segreto ben più macabro…”
Il moro rabbrividì una volta di più, immaginandosi la risposta.
Vite umane” scandì, lentamente, il boss.
Il suo viso era contratto in una morsa di pazzia dilagante, ma che manteneva – e forse era quella la parte più spaventosa – un briciolo di lucidità al suo interno. Lui diceva quelle cose con lo spirito di chi le crede completamente normali e, anzi, leggermente eccitanti e divertenti.
“Quella fabbrica produceva vite umane. Prendeva le fasce più deboli della società, tanto i loro corpi si trovavano facilmente ai bordi delle strade senza dover andare a saccheggiare dei cimiteri – sarebbe immorale, non trovi? -, e raccoglieva tutti all’interno di quella fabbrica, riportandoli alla vita grazie alla tecnologia “Karakuri”, che ne sopprimeva la volontà e li faceva diventare temibili armi da combattimento, perfette per un esercito privato!”
A quel punto si alzò dalla sedia, e d’istinto anche Kiba lo fece, preparandosi a scappare.
“Oh, no, non fare così. Non voglio farti nulla! Volevo solo… mostrarti una cosa.”
Allora tirò fuori delle chiavi e si avvicinò alla porticina sulla destra della stanza, che a quanto pare doveva racchiudere al suo interno informazioni vitali.
“Ecco, dopo questa piccola introduzione, credo di poter finalmente rispondere alle tue domande, e forse anche a dirti qualcosina in più…”
Il boss infilò la chiave nella serratura e la girò lentamente, facendo scattare il meccanismo di apertura. Una volta aperta la porticina, gli si parò davanti un muro d’acciaio. Allora l’uomo digitò alcuni numeri su un aggeggino collegato a quella strana apertura, e poi dovette anche sottostare ad un controllo per l’identificazione della retina. Evidentemente, le informazioni all’interno di quella stanza erano così importanti che non volevano rischiare che qualcun altro le potesse ottenere.
“Ma, all’insaputa di tutti, gli esperimenti sono andati avanti… proprio qui.”
E, detto questo, aprì la porta e si girò verso Kiba: dietro alle sue spalle apparve lo scorcio di un vero e proprio laboratorio, apparentemente con il compito di creare dei Karakuri.
“Perché devi sapere che un giorno, a causa di uno sfortunato incidente, la fabbrica saltò in aria, mandando apparentemente in fumo il lavoro di anni.”
Yamato

Ed ecco il ritorno di "Karakuri", in un momento di pausa dopo gli esami. Sono cosciente che la storia procede molto a rilento, ma il tempo è quello che è e bisogna accontentarsi. Più che altro è da un po' che non vedo recensioni T______T Avanti, se leggete, poi scrivetemi cosa pensate della storia, che almeno così la posso migliorare!!
E ora vi lascio al capitolo...:

Capitolo 006
Il laboratorio


Kiba entrò lentamente dalla porticina appena aperta dal boss della Yakuza di Osaka, guardandosi attentamente intorno. Il piccolo laboratorio alle spalle di quell’uomo sembrava a prima vista molto semplice, e nello stesso tempo assolutamente sofisticato. Un brivido corse lungo la schiena del ragazzo.
In fondo alla sala c’era un enorme computer che, a quanto pare, doveva manovrare i macchinari che si spostavano tutti all’interno di una ventina di lunghe e pure piuttosto larghe ampolle di vetro. All’interno di esse, immersi in un liquido bluastro, c’erano i cadaveri di altrettante persone: parecchie donne, qualche bambino ed un paio di uomini.
Il loro corpo fluttuava in quella strana miscela, senza però toccare il fondo di quei contenitori che sembravano usciti da un film di fantascienza: erano come sospesi a mezz’aria, con gli occhi chiusi, ma con un’espressione stranamente serena in volto. Una sensazione di inadeguatezza prese Kiba allo stomaco, che provò un fortissimo senso di nausea. Il suo viso serio, tuttavia, non cambiò minimamente espressione.
Quelle macchine – ipotizzò Kiba – dovevano essere la base della tecnologia Karakuri che, malgrado quello successo cinque anni prima, ancora non si era fermata. Il computer centrale, notò il giovane, era molto ampio e pieno di bottoni colorati ed assolutamente delicati: a quanto pare, a quella stanza poteva accedervi solo il boss della Yakuza, quindi doveva essere lui a controllare tutto ciò.
“Inutile dire che…” riprese quell’uomo
“questo è niente rispetto al grande laboratorio che usavamo cinque anni fa: questa stanza l’ho costruita in un clima di completa emergenza, per non dover fermare il grande progetto di cui ti illustrerò con piacere i particolari. Ma prima torniamo alla notte dell’incendio…”
Gli occhi delle due persone chiuse in quella stanza si incrociarono per un attimo, salvo poi allontanarsi subito dopo. Kiba continuava a guardarsi intorno, mentre ‘Kurono Neko’ non aveva occhi che per il fanciullo.
“Devi sapere che la tecnologia “Karakuri” non si ferma a ciò che ti ho spiegato: esiste un progetto ancora più segreto, che si basa sull’esistenza – fino ad una ventina di anni fa considerata mitica e senza alcun fondamento – di un potere originario che sarebbe alla base del concetto di riportare in vita i morti.
Devi sapere che tantissimo tempo fa esistevano tre potenti animali, e…”
“Sì, grazie, conosco la leggenda” tagliò corto il moro.
“Bene, tutto tempo risparmiato.
Perfetto, allora, come ben sai questi tre animali – alla fine del racconto – decidono di diventare puro spirito e mantenere in vita i fratelli… solo che a te manca il continuo della storia, quello racchiuso tra le nostre mura.”
Kiba ebbe un brivido d’eccitazione: stava – forse – per scoprire il segreto dietro la leggenda dei Karakuri.
“Non ho alcuna intenzione di raccontarti tutta la storia – ci sono troppi dettagli scomodi – ma arriverò subito al punto: i poteri dei Karakuri originari è arrivato fino a noi, sotto forma di ambra cristallizzata. Quindi, come puoi ben capire, sarebbe stato un delitto non approfittarcene…”
“Voi avete fatto tornare in vita i Karakuri originari?!” esclamò il ragazzo.
“No, non esattamente. Ma torniamo a cinque anni fa…
In quel periodo io riuscii a mettere le mani proprio su uno di quei poteri: quello del lupo. Fu in quel momento che successe l’irreparabile: come un bambino che ha appena ricevuto un gioco nuovo, non vidi l’ora di provarlo. La cavia per questo esperimento fu un bimbo che era morto qualche giorno prima per colpa della sifilide: era stato probabilmente contagiato dalla madre o dal padre, anche se al momento del ritrovamento giaceva da solo ai bordi di una strada. E fu così che gli venne impiantato quel potere…
Tuttavia, non appena l’operazione fu conclusa, il piccolo non riuscì a controllarlo e fece saltare in aria tutta la fabbrica, e l’incendio partito da lì rischiò di distruggere tutta la città. Ma credo che a questo punto sia giusto arrivare alla parte più interessante di questo mio lunghissimo sproloquio: l’identità di quel piccolo cucciolo d’uomo, che perdemmo quella notte e che ritrovammo e identificammo nuovamente solo qualche tempo fa…”
“Lupo…” fece Kiba, pensieroso.
Poi la risposta del boss della Yakuza lo fece da una parte sussultare, e dall’altra tolse al ragazzo ogni dubbio.
“Già, lupo… o, per meglio dire, “Okami”: quello è il braccialetto che gli avevamo messo, per identificarlo.”
Le pupille del giovane si ingigantirono dalla sorpresa.
“Esatto… il bambino di cui parlo… colui che ha il potere del Karakuri Originario… sei proprio tu, Kiba Okami.”
D’istinto, una mano corse immediatamente alle cicatrici che aveva sul volto, anch’esse residui di quella maledetta notte. In quel momento, gran parte dei pezzi del puzzle si ricomposero nella testa del ragazzo, che però continuava a stentare a credere alle parole dell’uomo.
“Tu eri stato progettato per essere a capo dell’esercito dei Karakuri, tuttavia non avevamo fatto i conti con l’oste: il potere Originario del Lupo non soppresse minimamente la volontà del giovane che, invece, tornò in vita e continuò a vivere come un normalissimo essere umano. Le funzioni vitali non vennero compromesse, e difatti tu crescesti come tutti gli altri bambini, anno dopo anno, senza che nessuno potesse sospettare di nulla. Neanche Mario, il tuo caro amico…”
Kiba serrò la mascella, mostrando i denti, come un vero e proprio lupo. Un lupo che aveva le zanne scolpite dal fuoco sulle guance, ma anche un lupo che possedeva le stesse zanne nel cuore, nell’anima, nel coraggio da vendere che lo contraddistingueva dal branco.
“Calma i tuoi bollenti spiriti, giovanotto: non ho ancora finito.
Mi sembra abbastanza ovvio che la produzione di vite umane, in sé, non abbia molto valore, non ti pare? Ed è così che, prima, siamo arrivati alla possibilità di creare un esercito, ricordi…?”
Il moro annuì.
“Un esercito senza alcuna volontà propria, capace solo di avanzare e sterminare gente, senza paura di morire o di uccidere a sua volta. Un esercito perfetto per la conquista…”
Gli occhi di Kiba diventarono due fessure, ascoltando quelle parole.
“Ma converrai con me che di certo non avevo bisogno di farmi l’esercito personale, per conquistare questa città, no?”
Il ragazzo trasalì.
“Difatti l’obiettivo con cui è nato questo progetto è di conquista di qualcosa di infinitamente più grande: la conquista del mondo intero!”
“Dannato bastardo…!!”
“No, non fraintendere” si affrettò a precisare il capo
“Non sono io a voler utilizzare queste macchine perfette per uno scopo tanto infantile: la mia figura è solo di facciata. Dietro di me c’è un’organizzazione ben più grande e potente, che si approfitta dei miei servigi dandomi in cambio i mezzi per mantenere il potere su questa città.”
Il boss sorrise, poi riprese a parlare:
“Beh, arrivato a questo punto, tanto vale che ti dica anche questo benedettissimo nome, ti pare?”
Kiba osservò il suo avversario con sospetto, ma anche con un grandissimo interesse: le informazioni che stava per ottenere erano di vitale importanza per capire gran parte della storia, che a quanto pare coinvolgeva non solo lui e la città di Osaka, ma addirittura il mondo intero e qualche importantissima organizzazione.
Il capo della Yakuza, dal canto suo, era scosso da alcuni tremiti di eccitazione e aveva le pupille spalancate, ed un sorriso che rasentava la follia in volto: stava per compiere l’ennesimo atto proibito. Dopo aver spiattellato a Kiba quasi tutti i dettagli superficiali di quella storia di complotti a livello globale – e probabilmente, se avesse saputo di più, non avrebbe esitato a farglielo sapere – adesso stava per compiere il tradimento definitivo: stava per dire a quel moccioso qual’era il nome di coloro che si celavano dietro a questo incredibile affare internazionale.
Fu proprio in quel momento, che Kiba comprese che il suo viaggio non si sarebbe di certo fermato lì: probabilmente, da quel momento in poi, avrebbe viaggiato in lungo e in largo e per proteggere sé stesso da coloro che lo desideravano, e per provare a salvare il mondo che – a quanto pare – era in gravissimo pericolo.
Ma, finalmente, il momento della rivelazione era arrivato…:
“Coloro che desiderano conquistare il mondo, coloro che vogliono un esercito di Karakuri e – soprattutto – coloro che desiderano il potere degli Originari sono i membri del…”
Bloccato

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